Tagli generali e permanenti

Tagli generali e permanenti

È talmente ovvio quanto ne potrebbe beneficiare l’economia che ormai non c’è politico che non dichiari di voler ridurre il cuneo fiscale. Ma, oltre al trovare le risorse e al trasformare in realtà le promesse, bisogna considerare un altro punto fondamentale. E cioè che i tagli funzionano se stabili e per tutti, non certo se impostati su di una sola categoria (per esempio il tempo indeterminato) o in maniera temporanea. Lo dimostra uno studio dell’Inps che analizza gli effetti della decontribuzione introdotta a inizio 2015, legata al Jobs Acts e terminata in maniera definitiva a dicembre 2018. Ecco, ora che sono scaduti gli ultimi effetti della norma e nessun contratto in essere beneficia più di questo esonero, il bilancio finale che arriva presenta più ombre che luci. Le luci, anche se poche, ci sono. Alla fine dei 36 mesi in cui è stata in vigore la decontribuzione non c’è stato un boom di cessazioni per i contratti a tempo indeterminato, il cui saldo tra nuovi assunti e fine dei rapporti è negativo di sole 15.000 unità. Nel totale dei tre anni, poi, sono 2 milioni e 270 mila i nuovi contratti agevolati stipulati. Un buon numero, che però è pari a meno del 20% del totale dei rapporti di quel tipo attualmente esistenti. Insomma, se pure si tratta di un successo, la decontribuzione legata al Jobs Act non è stata un trionfo. Soprattutto, l’Inps certifica che dopo 3 anni circa il 50% dei contratti ‘agevolati’ non esiste più. Nell’attuale tessuto produttivo, infatti, il turn-over è elevatissimo e non solo per scelte dei datori di lavoro o a causa dei licenziamenti, ma perché spesso sono i lavoratori a cambiare mestiere, aziende, posizione. Allora, è evidente che i 16 miliardi e mezzo investiti per stabilizzare il mercato del lavoro non hanno prodotto gli effetti sperati. E sicuramente non hanno rivoluzionato il sistema, visto che solo la metà delle posizioni è rimasta in vita allo scadere degli incentivi. Al di là degli effetti positivi della norma, infatti, è evidente che l’impegno limitato alla sola categoria del “posto fisso” (peraltro un po’ datata sia nella storia che nella sua stessa idea) o solo per poco tempo, non ha aiutato la transizione verso un nuovo mercato del lavoro, meno ideologico e ottocentesco e più legato al terzo millennio e alla nuova struttura produttiva. Piuttosto che piazzare bandierine politiche o inseguire elettorati ideologizzati, chi si occupa di un tema delicato come quello delle leggi del lavoro in un’economia che cambia alla velocità della luce (o dei byte, se volete) dovrebbe ragionare su un taglio del cuneo fiscale che non discrimini il tempo indeterminato da quello determinato, il dipendente dall’autonomo, chi viene assunto nel 2015 e chi nel 2018. Non è così che si risolve il problema. Se partirà, il nuovo governo dovrà affrontare il tema in maniera non ideologica, altrimenti decontribuirà allo sviluppo del Paese.

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